Dove va il sindacato?

Il punto  Marco Ciani

sinLa vicenda dell’assemblea sindacale del 18 settembre al Colosseo e il successivo decreto che limita la possibilità di scioperare nei beni culturali, costituiscono solo l’ennesimo episodio di una guerra al sindacato dichiarata dalla politica, ma certamente non osteggiata dall’opinione pubblica e dalla stampa. Basta leggere gli articoli apparsi il giorno appresso sui maggiori quotidiani nazionali, di qualunque orientamento.

Personalmente ritengo sbagliata questa belligeranza. Ma ritengo al contempo errato l’approccio di chi pensa si possa ridurla ad un problema tra il governo in carica e le organizzazioni dei lavoratori. Vediamo perché.

Partirei da un dato di fatto. Malgrado i suoi acciacchi, il sindacato in Italia rappresenta, anche a voler fare una ragionevole tara, una decina di milioni di cittadini. E’ un numero rilevante: 1 italiano su 6. Si potrebbe obiettare che per la metà si tratta di pensionati. Ma anche escludendoli dal computo, scopriremmo che la rappresentatività tra i lavoratori attivi rimane ancora elevata: circa 1 dipendente su 3, secondo i dati dell’UE.

Per farsi una idea della valenza di questo dato, basti pensare che nella “mitica” Germania della mitbestimmung, o codeterminazione, gli iscritti sono circa la meta e in Francia o negli Stati Uniti siamo sotto al 10% dei dipendenti. Se comparato, quello italiano risulta pertanto tra gli indici più significativi in Europa, con l’esclusione dei paesi scandinavi e del Belgio, dove però l’adesione è decisamente favorita dalla legge (sistema Ghent) e poche altre piccole nazioni.

I numeri dunque sembrerebbero indicare la persistenza di un vigore capace di sfidare il tempo. Ma è proprio così? Onestamente non credo si possa rispondere in modo affermativo. E, di fatto, non v’è chi non comprenda, anche all’interno delle stesse organizzazioni sindacali, che al di là del dato quantitativo, affatto malvagio e neppure secondario, i sindacati vivono da qualche anno una situazione di crisi che non può essere trascurata, a pena di porre a repentaglio le prospettive future. Si leggano in proposito i recenti interventi sul tema di Ilvo Diamanti per Repubblica e Daniele Marini per La Stampa.

Anche in questo caso sarebbe facile eccepire che tutte le organizzazioni di massa sono in crisi di rappresentanza (basti pensare ai partiti) e, a conti fatti, almeno il sindacato mantiene dei numeri importanti, peraltro all’interno di un trend internazionale che certo non lo favorisce, posto che ovunque il peso delle associazioni dei lavoratori è in calo.

Dove sta allora l’inghippo? Perché malgrado le copiose adesioni, il sindacato sembra vivere un momento di evidente difficoltà? E come può venirne fuori? E, soprattutto, serve ancora?

Una osservazione. A mio parere, il sindacato non è in crisi per colpa degli eventi politici. Ovvero, non è sufficiente a spiegarne il calo di popolarità e di pregnanza il semplice fatto che non venga più coinvolto nelle scelte del governo o del parlamento, come ai tempi della concertazione. O, peggio ancora, che sia additato a ogni piè sospinto come un peso per il paese e per le sue prospettive di rilancio. Un vecchio arnese di cui sbarazzarsi o da riporre in un angolo nascosto, affinché non produca danni.

Certamente la politica può fare molto per favorire o, al contrario, per ostacolare la vita dei sindacati. Ed è altrettanto evidente che, con l’avvento di Renzi alla guida del maggior partito erede della sinistra, ogni possibile collateralismo è dissolto. Pur tuttavia bisogna chiedersi se l’atteggiamento negativo della politica ormai nella sua pressoché totale interezza nei confronti del sindacato sia la causa del problema o non piuttosto l’effetto postumo di un lungo logoramento che situa altrove le sue ragioni più profonde.

In altri termini, forse, il problema vero non sta tanto nel fatto che Renzi (diciamo lui per esemplificare) prenda a pesci in faccia la triplice, da lui considerata un blocco senza distinzioni, e le sue sollecitazioni comprese quelle di natura contrattuale. Piuttosto il premier sembra aver portato in luce una debolezza preesistente e mai finora denunciata, almeno non dalla parte politica tradizionalmente più attenta alle istanze sociali.

L’esercizio più imbarazzante svolto da Renzi in questa faccenda sarebbe quello di avere detto in modo chiaro e tondo che il re è nudo. Se questa analisi è corretta, non basterà un cambio al governo, magari auspicato in qualche sede, per riportare il sindacato ai discreti fasti di un tempo. Al contrario: il problema dovrà essere valutato in modo assai più severo e rigoroso, senza cercare scorciatoie che condurrebbero, con ogni probabilità, in vicoli chiusi.

E’ necessario, sempre a mio modo di vedere, che il sindacato guardi dentro se stesso in modo serio. Che cerchi di capire perché nonostante il numero pur sempre elevato di tessere, la sua rappresentanza appare fragile. Meglio un’analisi spietata, piuttosto che consolatoria, se si vogliono comprendere le ragioni per le quali interi segmenti di popolazione, dai giovani precari (e disoccupati) ai dipendenti del settore privato e perfino i pensionati…”giovani” facciano sempre più fatica a riconoscersi nelle organizzazioni di rappresentanza.

In molti accusano il sindacato di non stare al passo con i tempi. Di non capire il mondo che cambia e il lavoro che cambia con esso. Ecco, credo che anche questo dovrebbe costituire oggetto di una riflessione approfondita, coadiuvata da accademici veri (e non pseudo/esperti che dicono ciò che si vuol sentirsi dire, non ciò che serve), che possano rivelare anche le verità che non piacciono, quelle che a volte, nel sindacato, si cerca di trascurare. Ma forse, quelle più necessarie.

Mi veniva in mente quest’anno, nel trentesimo anniversario della morte per mano delle brigate rosse, quanto scioccante deve essere apparsa, ad un primo impatto, l’idea di Ezio Tarantelli di superare la scala mobile. Direi una bestemmia, per l’epoca. Eppure, quanta è stato lungimirante la scelta di buona parte del sindacato di non chiudersi di fronte a una proposta tanto scomoda. Anzi, di costruirci sopra un patto sociale per rilanciare il paese.

Di fastidiose verità il sindacato ha oggi un bisogno quasi disperato, perché la tentazione di rifugiarsi nell’autoreferenzialità e nella retorica è forte. Come ha l’esigenza di sintonizzarsi maggiormente sul sentiment della pubblica opinione, che è molto mutata rispetto al passato, atteggiamento testimoniato da numerose indagini. Da questo punto di vista, la vicenda del Colosseo a cui abbiamo accennato all’inizio appare emblematica.

Infine il sindacato dovrebbe, sempre a mio modesto avviso, molto sburocratizzarsi, snellirsi ed ammodernarsi. Mentre invece abbisognerebbe, per i suoi quadri a tutti i livelli, di ingente formazione e formazione di qualità per stare al passo con l’evoluzione. Per non apparire inadeguati. Oggi spesso sono percepiti tali. Non sempre a ragione, ma non sempre a torto.

Gli imponenti apparati che in passato potevano servire a far funzionare la macchina organizzativa retrostante, oggi, nell’era di internet, dei social e dei tablet, fanno onestamente un po’ sorridere. Così facendo i tempi e i costi del sindacato diventano incompatibili con quelli della società odierna.

La parodia di Crozza che, imitando la leader della CGIL Susanna Camusso, cerca di introdurre un vecchio gettone telefonico nell’iphone, appare calzante. Anche chi frequenta il sindacato solo come utente si rende conto che occupa troppa gente della cui utilità si stenta a capire il senso.

Persone che forse potrebbero essere reimpiegate in modo più proficuo o, diversamente, invitate a passare in modo più conveniente, se non più produttivo, il proprio tempo. Una maggiore sobrietà e trasparenza nell’uso delle risorse, in tutti i sensi, compresi i trattamenti dei dirigenti, farebbe solo bene al sindacato.

In conclusione, il sindacato italiano sta vivendo una fase di passaggio. Un lungo periodo è alle spalle, quasi mezzo secolo di rilevanza sociale ed economica. Un intervallo che potremmo a grandi linee delimitare con due date, il 1970 anno di entrata in vigore dello statuto dei lavoratori (o legge 300/70) e il 2015 anno dei decreti attuativi sul jobs act e il definitivo superamento dell’art.18.

E’ stato un tempo di grandi spinte, anche ideali, che ne hanno favorito il ruolo. Chi ricorda il clima in cui maturò lo statuto e tutta la fase successiva dovrebbe comprendere bene questo passaggio. Si trattò di una spinta propulsiva molto forte, i cui effetti si sono protratti per decenni.

Ma quell’arco temporale è coinciso anche con una fase di avvenimenti importanti che hanno cambiato radicalmente il volto della società e del mondo. Viceversa il sindacato è cambiato poco. Anzi, salvo qualche aggiustamento, è rimasto nei tratti essenziali molto simile ad allora. E quella benzina valoriale che imprimeva la spinta si è esaurita.

Ora non è più possibile riposare sugli allori del passato. I mutamenti del lavoro, trainati dalla tecnologia, rendono indifferibile una riconciliazione rapida con la realtà, pena un declino inevitabile e, con ogni probabilità, nemmeno tanto graduale.

Ma la realtà va capita e interpretata. E per farlo serve individuare una chiave di lettura non banale, non retorica, non scontata, non autoreferenziale, adeguata ai tempi. Se il sindacato farà questo passo con l’energia e la convinzione richieste, allora la funzione insostituibile e preziosa che ha svolto in favore dei lavoratori e della parte più debole della popolazione potrà essere rigenerata e riprendere con vigore rinnovato.

In ultima analisi, davvero serve ancora il sindacato? L’enorme aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e del patrimonio, a partire dagli anni ’80 in poi, suggerisce di sì. Del sindacato c’è ancora bisogno. Domani forse più di ieri. Anche se di un sindacato diverso. Il futuro, per fortuna, è ancora da scrivere.