Difese e resistenze di un paese nel tunnel

Il punto  Agostino Pietrasanta

itaLe analisi abbondano e, al netto delle imputazioni ad una classe politica impotente, incartata sulla contingenza e sulla contraddizione, di partiti politici senza identità, senza leader, senza progetto e senza programmi convincenti; al netto di tutto questo che, in ogni caso, si conferma quasi integralmente, si scopre che le debolezze del Paese sono di ben più vasta natura e ben più drammatica condizione.

Le analisi abbondano e talora vengono lette con buona intenzione di valutarne cause e conseguenze. Si scopre così la cristallizzazione delle istituzioni, la loro organizzazione corporativa, la loro valenza intoccabile, e conseguentemente la loro inevitabile deriva e la loro conseguente caduta di moralità. Si tratta di una condizione diffusa; tutte le categorie vantano meriti, diritti, prerogative e privilegi, il tutto come variabili indipendenti dalla produttività. Lavorano per i loro interessi, per la promozione della loro sopravvivenza e per la permanenza delle loro acquisizioni, dal momento che i “diritti acquisiti” costituiscono appunto una variabile indipendente dai meriti. La costante, fatte le debite lodevoli eccezioni, sta nella difesa dell’ordine e della professione e non nella preoccupazione del bene comune,  della città dell’uomo e dei cittadini.

Le analisi abbondano e non è il caso di soffermarsi all’osservazione. Certo, in questa situazione non può stupire l’eccesso di statalismo che si sta delineando, ma di uno Stato o sedicente tale che opera appunto per le prerogative ed i privilegi di tutti,  di  uno Stato e relative istituzioni erogatrici di privilegio. Ne abbiamo anche e spesso individuate alcune cause, una fra tutte la scarsa identità nazionale del Paese; ne consegue che alla nazione, ai suoi ideali, ai suoi progetti di crescita, si sostituiscono le frammentazioni corporative e lo Stato anziché interpretare lo spirito della nazione, difende le “ragioni” particolari e di casta.

Nessuna parte ne è esclusa; non sono solo le corporazioni forti che peccano, che interpretano il ruolo dell’arroganza propria dell’appartenenza, non sono solo i potentati economici, le lobby finanziarie, i corpi della magistratura; sono anche i ceti più deboli che giocano in difesa del privilegio o di quel poco di prerogativa di classe che riescono a strappare.

Vogliamo un esempio lampante? Prendete il personale della scuola; deprezzato, umiliato, mal/pagato da sempre ed anche sacrificato, eppure, a fianco degli insegnanti capaci e meritevoli, molti altri riescono a trovare la rappresentanza della propria difesa di corpo, nonostante la scarsissima “produttività”. Provate a tentare una valutazione del loro merito: sindacati, autonomi e confederali, movimenti, associazioni di categoria, laiche ed ecclesiali, scattano letteralmente alle armi e non capiscono che anche i migliori vengono assorbiti in un sistema di casta, debole fin che volete, ma incapace in mettere in gioco la propria professionalità. Eppure, tutti dicono che senza formazione non si cresce ed intanto il declino continua. Lascia perplessi e lascerebbe divertiti, se non ci trovassimo ad attraversare un dramma reale, la previsione di una crescita del PIL, in corso d’anno dello 0,3%; ammesso che sia una valutazione reale dopo una caduta dell’economia che ha già marcato una perdita dell’8%, mi sembra l’ottimismo di chi caduto da una scalinata imponente, tenta, arrancando, di salire uno scalino.

Dal senso dello Stato si cade così nella palude dello statalismo che, con una burocrazia deprimente e talora corrotta e con una foresta di leggi, offre garanzia non ai diritti, ma alle prerogative di corpo; ed è in questo contesto, su questi presupposti pseudo/culturali che si rende possibile un “corpus” legislativo ad personam che umilia la cosa pubblica e difende un inquisito fino ad assicurarne la possibile impunità.

Sicuramente c’è una soluzione e c’è da sperare che non debba passare attraverso una conflittualità sociale che in molti stanno e giustamente temendo.

Intanto bisognerebbe far piazza pulita delle ideologie, ormai vuote di ogni consistenza e spesso cristallizzate nei più banali stereotipi. Mi è capitato di leggere che la causa colpevole e più grave dello statalismo è da ricercarsi nella cultura del “cattolicesimo democratico”; data l’autorevolezza di chi ne ragionava, ho letto più volte, per vedere se avevo capito. Proprio la cultura politica che, bene o male ha sostenuto il primato della “società civile sullo Stato”, la cultura che ha proposto un’idea di Stato nobilmente strumentale ai diritti dell’individuo e della società, viene scambiata per statalista! Non è un modo per recuperare quanto di buono c’è nel percorso della nazione, nonostante le derive storiche che in ogni cultura politica si possono verificare.

Il fatto è che la più vistosa, anche se non unica causa dello statalismo sta nell’assenza di una visione unitaria della nostra nazione; così tutti hanno preteso dallo Stato la difesa del particolare; se mai proprio qui c’è l’origine di uno statalismo che ha semplicemente favorito non il formarsi di un tessuto unitario, ma la rincorsa al vantaggio di casta.

Io credo però e, per certi versi, mi ripeto, che per uscire dal tunnel delle difese corporative, ci sia solo la strada che promuove il merito personale. E qui non c’è neppur bisogno di riformare la Costituzione. Nella Carta si parla sia di integrale sviluppo della persona umana, sia di promozione della capacità e del merito, come compiti dello Stato; al contrario, abbiamo assistito ad una deriva egualitaria che è il contrario dell’uguaglianza delle libertà e dei diritti personali che si fondano anche sullo sviluppo delle capacità di ognuno messe al servizio di tutti.

Eppure non dovrebbe essere difficile capire che lo sviluppo delle capacità personali va nel senso contrario alla difesa dei privilegi della corporazione; non dovrebbe essere faticoso rendersi conto che la crescita dello “status” dei più deboli si realizza non se si difendono gli ordini e le caste, ma le persone e le loro possibilità di servizio alla nazione ed alla sua crescita.

Lo so che si tratta di rivoltare una mentalità, una “cultura” consolidata, di rovesciare il costume sociale come un guanto, ma non vedo alternativa. Qualcuno dirà che sono parole; ma noi che possiamo fare se non tentare un ragionamento?

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