Renzi = destra?

Carlo Baviera

renFabrizio Rondolino su Europa del 13 novembre affrontava il ‘fenomeno Renzi’: “La verità è che una parte della sinistra si è venuta convincendo che Renzi non sia affatto di sinistra, e che anzi sia il nemico più insidioso, il più spregiudicato, il più temibile. Renzi, agli occhi di costoro, riproduce il berlusconismo, e anzi ne è l’erede legittimo […] Renzi, a sua volta, non fa nulla per nascondere la propria siderale lontananza dai miti e dai riti della sinistra conservatrice, sulla cui rottamazione, del resto, ha costruito una carriera di indubbio successo. Sebbene non usi più quell’espressione, il premier quotidianamente rottama la cultura politica, i pregiudizi, le teologie e il personale che hanno dominato a sinistra nell’ultimo ventennio”.

Da queste affermazioni fa derivare la possibile rottura a sinistra, e afferma che l’ambiguità (sono sempre parole di Rondolino) che ha contraddistinto i partiti post-Pci fino al Pd di Bersani – un involucro riformista su un nucleo rocciosamente conservatore – è esplosa, e perciò la “cosa rossa”, un nuovo partito di sinistra, si costruirà sicuramente fra non molto tempo.

Intanto bisogna chiedersi se sia vero che Renzi, la sua strategia, i provvedimenti da lui assunti sono di destra. Se rappresenti una specie di ‘cavallo di Troia’ nel centro sinistra che porta avanti proposte che appartengono ad altri ambienti, ad altre posizioni.

A me sembra che, pur con tutte le critiche che gli si possono rivolgere o i dubbi che possono suscitare le sue riforme, non possa essere definito un conservatore o un moderato; almeno nel senso che si è sempre dato a questo termine. Che sia assimilabile a un Blair è cosa più evidente; e del resto ha ragione chi dice che Renzi ha in mente di riformare mettendo in crisi i miti e i metodi classici della sinistra. E inoltre gli va riconosciuto di aver smontato Forza Italia e il suo leader: merito non solo suo, ma anche di predecessori.

Perciò la seconda domanda è se, date per buone queste premesse, sia necessaria e conseguente la costituzione di un nuovo partito di sinistra, con automatica spaccatura del PD; con la presenza di un Partito della Nazione (quasi nuova DC) e un partito di lotta a sinistra che abbia un ruolo più progressista e di rappresentanza della socialità.

Personalmente, se il PD renziano si dovesse dividere, mi chiedo se ciò che resterebbe nell’attuale contenitore sarebbe un partito “interclassista” e “delle autonomie” in senso moderno, capace di realizzare uguaglianza di possibilità, di occasioni, ma anche di diritti e di redditi (nel senso che si potrà contare su pensioni e stipendi eque e proporzionate a mansioni e responsabilità); oppure se tenderà a diventare una riedizione del “doroteismo” e della socialdemocrazia anni ‘70/80. Le vicende di Mafia capitale stanno a ricordare che il “cancro” non solo è in agguato, ma ben radicato nel sottogoverno.

E’ da valutare, poi, ed è questa la cosa che per certi versi stuzzica di più, cosa possa essere un eventuale partito che comprenda Bindi, Fassina, Civati, ecc. (anche se molti del gruppo hanno ribadito di voler restare nel PD). Una vera sinistra riformista attenta alle problematiche della giustizia e della riforma della burocrazia, con una visione di Europa federale, che pensa al riconoscimento pieno delle autonomie, dei nuclei intermedi e allo sviluppo del Terzo Settore; oppure se si rinchiuderebbe nella rappresentanza di una parte di società, di rappresentanza di ciò che resta di mondo del lavoro stabile e organizzato, di temi classici delle formazioni di derivazione socialista e marxista.

Francamente, in questo ultimo caso, la cosa non mi appassiona molto. Ci riporterebbe a situazioni già sperimentate di concorrenza tra una sinistra (più piccola del PCI) e un centro (o centrosinistra light) che tenta di recuperare consensi alla sua destra, in uscita da partiti in crisi o per contrastare lo smottamento verso la Lega di Salvini.

La storia, almeno quella che io conosco, ci ha insegnato che la sinistra da sola non vince; e il centro se non “guarda” o procede verso sinistra diventa moderato e conservatore. Allora Arturo Parisi dice cose giuste, almeno dal mio punto di vista, quando afferma che il PD (come partito che deriva dall’Ulivo) “non può correre il rischio di tagliare fuori dalla sua proposta le fasce più disagiate della popolazione, lasciando ad altri la loro rappresentanza o peggio ancora spingendole fuori dalla politica”, ma essere un partito “che si rivolge a tutti, ma con una proposta precisa connotata in termini sociali e culturali, che assume a riferimento in modo non esclusivo ma prioritario la speranza, l’ansia, la sofferenza e le domande di una parte della società”.

Questa impostazione si scontra, però, con la difficoltà di costruire un vero partito plurale e di non trasformare il bipolarismo in bipartitismo. Pur con un partito cardine serve avere alleanze con partiti minori, per tenere conto dell’articolazione civile e culturale della nazione. E un partito, soprattutto se a vocazione maggioritaria, dovrebbe al suo interno non mortificare le minoranze, le quali pure rappresentano parte del proprio elettorato.

Staremo a vedere come si svilupperà la situazione; e soprattutto se i passi di Renzi su lavoro, economia, e sulle riforme elettorali e del Senato renderà necessaria la nascita di una nuova “cosa rossa”.

2 pensieri su “Renzi = destra?

  1. Pingback: “APPUNTI ALESSANDRINI”: RENZI = DESTRA? | c3dem

  2. Sul quotidiano “La Stampa”, nel numero di venerdì 19 dicembre 2014, a pagina 33, è comparso un bellissimo articolo di Juan Carlos De Martin, che qui trascrivo.

    Solidarietà: Una parola che ritorna

    Ci sono parole che tornano. Possono inabissarsi per qualche tempo, ma, poi, la loro forza intrinseca le spinge di nuovo in alto. Solidarietà è una di queste parole. Poco considerata negli ultimi decenni, sta ora tornando ad imporre la sua forza, come testimoniato non solo dal nuovo libro di Stefano Rodotà, Solidarietà – Un’utopia necessaria, ma anche da Due giorni, una notte, il film dei fratelli Dardenne nei cinema proprio in questi giorni.
    È forse la più grave recessione economica a memoria d’uomo a rendere più sensibili all’idea di solidarietà? Riscopriamo un’idea antica per il ritorno di paure che si pensavano superate per sempre come la paura di non potersi curare o di non potersi permettere di studiare?
    Le difficoltà economiche stanno probabilmente favorendo il fenomeno, che però ha radici che vanno al di là della congiuntura. Questi ultimi trent’anni, infatti, hanno visto l’affermarsi d’idee fortemente anti-solidaristiche. In molti ambiti sono stati avviati processi con l’obiettivo di sostituire all’idea d’istituzione (e a quella di comunità) quella di mercato: gli Ospedali sono quindi diventati Aziende Ospedaliere; le scuole hanno iniziato a doversi vendere su un ipotetico mercato scolastico avente come clienti gli studenti e loro famiglie; persino la comunità scientifica si sta frantumando grazie a processi di valutazione che esasperano ulteriormente i muri tra le discipline e mettono ricercatore contro ricercatore, dipartimento contro dipartimento, università contro università.
    A questi processi disgregatori la società sta iniziando a opporre, come sempre nella storia, una reazione. E questa reazione passa necessariamente per la solidarietà, per la ricerca di ciò che unisce, per l’attenzione al destino comune. Il libro di Stefano Rodotà traccia la storia dell’idea e poi argomenta con forza che la democrazia deve essere fondata su quattro idee che si affiancano e si sostengono a vicenda: libertà, dignità, eguaglianza e, appunto, solidarietà. Sono queste le basi per guardare al futuro con speranza. È qui che la politica potrebbe ritrovare un suo ruolo forte, ineliminabile.

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