Viva Macron ma non muoia il socialismo

Daniele Borioli (*)

Emmanuel Macron Celebrates His Presidential Election Victory At The Louvre

Macron ha vinto, viva Macron. Tiriamo tutti un grandissimo respiro di sollievo per una vittoria schiacciante, che ha fermato il Front Nazional e la sua candidata Marine Le Pen. Una vittoria che, dopo il trauma della Brexit, ha probabilmente salvato l’Europa da un ulteriore passo verso la disgregazione. Un processo che difficilmente la stesso tandem Germania-Italia, ammesso che quest’ultima regga all’assalto populista e sovranista al momento delle prossime politiche, avrebbe potuto arginare.

La parte a mio avviso più convincente della proposta che ha portato al successo Macron sta proprio nella nettezza dell’opzione europeista, certo non acritica rispetto all’esigenza di cambiare registro sul fronte del rigorismo e del contrasto alle disuguaglianze e alle ingiustizie sociali, fondando su queste basi rinnovate il rilancio dell’Unione, ma al tempo stesso assai meno conflittuale verso Bruxelles, rispetto alle tonalità accese che in Italia hanno talvolta spinto le posizioni dello stesso Pd verso un’area assai prossima all’euroscetticismo.

Anche per questo, dunque, viva Macron. Non perché l’Unione non debba essere al tempo stesso rilanciata e cambiata: o meglio ancora debba avere nel cambiamento la leva del rilancio; ma perché è auspicabile che dalla vittoria di Macron venga la spinta a costruire in partnership, sulla scala europea, le condizioni politiche e culturali di un’Europa nuova. Più costruendo, che rivendicando; più facendosi promotori di aggregazioni e alleanze, che non distinguendoci per vivacità di protesta.

Ci sono, insieme, un’opportunità e un’insidia nelle parole pronunciate a caldo da Macron nel discorso del Louvre dopo la vittoria (non un grande discorso a mio avviso). Mi riferisco all’esplicito riferimento che il neopresidente ha fatto circa l’intenzione di ricostituire l’asse franco-tedesco. Opportunità, perché senza Francia e Germania l’Europa non si rilancia e non si cambia. Insidia, perché a partire da lì si giocherà la capacità dell’Italia di stare al tavolo dei protagonisti: quelli che sono in grado di co-determinare le nuove regole.

L’esito della partita non è scontato. Dipenderà molto da chi vincerà le prossime elezioni, e da quale prospettiva il Pd saprà indicare al Paese già dai prossimi mesi, sapendo che le due cose sono tra loro strettamente legate. Sarebbe infatti contraddittorio e ingannevole verso i cittadini celebrare ora i fasti di Macron, senza assumere sino in fondo il tratto del suo europeismo quale pilastro della propria proposta politica.

Quest’ultimo ragionamento, gravido di ingenti risvolti positivi, ci porta tuttavia in prossimità di alcuni problemi, sia su scala nazionale sia su scala europea, che non possono essere elusi. Il primo riguarda la semplice constatazione di un fatto: in Italia, il sistema elettorale vigente (meglio sarebbe dire “i sistemi elettorali”) e l’assetto bicamerale impediscono che accada ciò che è accaduto in Francia. Non c’è il doppio turno, e quindi la possibilità che su uno dei candidati al ballottaggio ricada il voto di coloro che, pur non riconoscendosi nella sua proposta politica, lo ritengono il male minore. E non c’è neppure quella radicata e maggioritaria cultura democratica e repubblicana che spinge i cittadini a considerare prioritaria la salvaguardia del sistema istituzionale.

È molto più concreta, nel nostro Paese, l’insidia opposta che spinge talvolta quote rilevanti e decisive di elettori a scegliere quanto è più lontano dalle proprie convinzioni pur di far perdere gli avversari tradizionali, non appena se ne dà l’occasione. È quanto è avvenuto, ad esempio, in occasione delle scorse amministrative: quando, pressoché dappertutto, gli elettori di destra hanno scelto ai ballottaggi i candidati dei 5S, pur di far perdere il PD.

Un primo punto problematico è, quindi, il seguente: come si costruiscono in Italia le condizioni politiche ed elettorali per vincere e sconfiggere populismi e sovranismi? Sul piano politico mi pare importante, se davvero vogliamo prendere gli spunti positivi che ci arrivano dalla Francia, eliminare dal campo ogni residua indulgenza populistica dalla nostra posizione sull’Europa, per guardare alla definizione di un campo di forze progressiste e riformiste che abbiano nel riscatto e nel rilancio del progetto europeo la loro stella polare. Va bene ma non basta puntare all’elezione diretta di alcune cariche decisive dell’Unione.

Bisogna puntare a fare di essa il baricentro delle riforme riguardanti: l’utilizzo degli investimenti come volano di sviluppo, crescita, occupazione e innovazione, l’utilizzo della leva fiscale come fattore di ridistribuzione e di progressivo riassorbimento delle diseguaglianze, l’avvio di una stagione di ampliamento dei diritti sociali e civili come rafforzamento di una cittadinanza che si definisce per inclusione e non per esclusione, l’impostazione di un paradigma rovesciato del rapporto tra sviluppo e ambiente, nel quale non sono le risorse ambientali ad essere poste al servizio dello sviluppo, ma è lo sviluppo che incorpora obiettivi di valorizzazione e rigenerazione delle risorse ambientali.

Sfide che possono reggersi solo sulla scala minima del continente e che già profilano una soluzione ragionevole all’apparente antinomia tra il ritorno alla coalizione, quale che sia, e la presunzione di autosufficienza. E tracciano l’ipotesi plausibile di un centrosinistra che si ricostruisce intorno a un solido asse riformista ed europeista, selezionato in ragione di rigorose e trasparenti opzioni programmatiche, e non a seguito delle tossine accumulate negli anni e nei mesi della nostra ultima difficile vicenda interna.

Si trova qui l’altro nodo da sciogliere: quello della legge elettorale. L’impossibilità di una legge a doppio turno ci costringe a cercare una regola che permetta di risolvere la questione dell’equilibrio tra rappresentanza e stabilità di governo nel tempo unico che avremo a disposizione. Il tentativo in atto in queste ore, tanto da parte di alcuni settori della destra quanto da porzioni non secondarie del centrosinistra, di assimilarsi al modello Macron è sintomatico di un equivoco e pare implicitamente accarezzare lo sfondo delle larghe intese. Dimenticando che votare al secondo turno per il “meno peggio”, sapendo che egli non modificherà le impostazioni politiche e programmatiche con le quali si è presentato al primo turno, è cosa ben diversa che accordarsi in Parlamento il giorno dopo le elezioni alle quali ci si era presentati con programmi alternativi.

È auspicabile che non prevalga la tentazione, anche nel Pd, di buttarsi in questo clamoroso errore, che rischia di riempire le urne di voti populisti, sovranisti ed estremisti, e che si lavori invece per una soluzione ragionevole, che punti ad eliminare le distorsioni più evidenti e nocive presenti nelle due diverse leggi di Camera e Senato, a favorire le coalizioni mettendole in competizione per un ragionevole premio di maggioranza, a restituire ai cittadini la sovranità della scelta, eliminando i capilista bloccati e ritornando al sistema di piccoli collegi uninominali, nei quali i candidati siano riconoscibili e valutabili dagli elettori.

C’è infine un ultimo spunto, che viene dalla Francia ma che riguarda direttamente anche il Pd. La vittoria di Macron si erge sulle macerie del Partito Socialista, mettendone in discussione le stesse possibilità di sopravvivenza. Molti commentatori si sono gettati, per la verità un po’ all’impronta, a trarre da questo fatto una conclusione definitiva e generale sulla chiusura di un intero ciclo storico, animato dalla contrapposizione tra destra e sinistra.

Dopo la clamorosa e non lontana smentita della profezia di Fukuyama sulla “fine della storia” all’indomani della caduta del Muro, ci andrei più cauto. In molti Paesi democratici le forze storiche tradizionali, soprattutto dello schieramento conservatore e moderato, sono ancora solide e tengono botta. I tories guidati da May si accingono a stravincere le prossime politiche del Regno Unito; Mariano Rajoy ha comunque vinto le ultime elezioni spagnole, Merkel e Schulz si contenderanno il cancellierato in Germania. E senza gli scandali che lo hanno devastato sarebbe stato con buona probabilità Fillon il presidente della Repubblica francese.

Attenzione, perciò, a non scambiare le difficoltà del campo socialista e progressista con un rovesciamento dell’intero paradigma su cui si gioca e si giocherà la competizione politica nei prossimi anni. La cosa che va evitata è piuttosto la scomparsa dal campo o la totale marginalizzazione di una delle squadre in gioco. Con la significativa eccezione della Germania e dell’Italia (se riusciremo a recuperare i chilometri di terreno persi dopo le straordinarie europee del ’14), nelle maggiori democrazie europee ciò che rischia di determinarsi è in realtà un’alternativa non già tra destra e sinistra ma tra destra e populismi.

Il problema è perciò quello di rigenerare il nostro campo, non di disarmarlo e di passare a uno schema di gioco che in gran parte d’Europa ci vedrebbe del tutto subalterni. Sui grandi temi del contrasto alle disuguaglianze si dovrebbe giocare, come socialisti europei, il nostro girone di ritorno. E in questa partita le forze della destra e della conservazione, per quanto democratiche, non possono per natura essere nostre alleate. Su questo il Pd si dovrebbe concentrare, con la forza e con l’autorevolezza che gli sono riconosciute: rifondare il PSE, farne un vero, credibile e forte soggetto politico transnazionale, capace di indicare alle nuove masse popolari, che come nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo si affacciano oggi sulla ribalta della storia europea, una direzione di marcia illuminata dalla speranza.

(*) Senatore PD della provincia di Alessandria

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