Renzi: il riformismo della cittadinanza

Daniele Borioli (*)

reIl Governo Renzi, con la legislatura che per mille giorni l’ha supportato, rischia di essere ingiustamente ricordato a lungo per il fallimento del tentativo di riforma costituzionale e per la naufragata legge di riforma del sistema elettorale. Passati ormai quasi due mesi dal referendum che ha portato alle dimissioni dell’ex premier, aprendo una stagione di tensioni e incertezze, vale tuttavia la pena di tentare una lettura meno schiacciata sulla parte finale del film.

Il Governo Renzi e la diciassettesima legislatura lasciano alla società e alle istituzioni italiani diversi buoni frutti, molti dei quali di portata addirittura epocale per il nostro Paese. Penso alla legge che ha per la prima volta disciplinato il tema del “dopo di noi”; alla riforma lungamente attesa del “terzo settore”; alle misure introdotte nel campo della bioetica; alla prime disposizioni che intervengono sul terreno del contrasto alle povertà. Da ultimo, non certo per importanza, il provvedimento che ha introdotto le unioni civili per le coppie omosessuali e disciplinato le convivenze.

Non entro nel merito di ciascuno di questi atti, e delle discussioni anche vivaci che ne hanno accompagnato l’elaborazione e l’approvazione parlamentari. Mi limito invece a sottolineare quello che ritengo possa essere il paradigma fondamentale sotteso a questa produzione legislativa: lo sdoganamento, nel campo del riformismo italiano, di molte delle tematiche legate all’inclusione sociale, al supporto per la piena cittadinanza dei soggetti più deboli, anche oltre i limiti naturali del sostegno familiare; al riconoscimento dei diritti individuali legati alla sfera sessuale e affettiva.

Temi che per molti anni, dopo le grandi battaglie degli anni ’70 per il diritto al divorzio e all’aborto, strettamente connesse al lungo cammino compiuto per l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne, hanno vissuto nell’ombra delle seconde file di un riformismo molto più attento al campo dei diritti dislocati lungo la catena dei rapporti tra lavoro e impresa, lavoro e sistema delle protezioni sociali, libertà di iniziativa economica, stagliati in netta posizione di preminenza gerarchica rispetto ai loro “fratelli” minori.

Non è un caso, perciò, che proprio sul terreno di un nuovo paradigma riformista, moderno ed efficace nel colmare il gap enorme dell’Italia sul fronte dei “nuovi diritti”, rispetto a tutti i più civili Paesi dell’Europa e del mondo, non solo l’Ulivo, ma lo stesso progetto del Partito Democratico abbiano segnato visibilmente il passo, di fatto glissando sulle difficoltà. Accontentandosi di timidi tentativi accennati ma mai portati a fondo. Sino a Renzi e alla parte della legislatura che ha avuto in lui l’interlocutore al Governo.

Quando nel tratteggiare l’esito del processo di riforma costituzionale ci si sofferma sugli errori compiuti dal segretario del Partito Democratico, sui limiti della sua azione e sulla sua propensione all’arroganza, bisognerebbe, se non altro per onestà intellettuale, riconoscere i meriti della determinazione caparbia, del coraggio di mettersi in gioco, della capacità di cavare sempre il massimo possibile dalla rigidità e/o dalla flessibilità dei rapporti di forza parlamentari, pur di portare a caso l’obiettivo anche a costo della spregiudicatezza.

Il caso delle unioni civili è in tal senso emblematico. Sul piano teorico, non c’è nulla di più stridente del porre la fiducia su un provvedimento che, invece, dovrebbe essere affidato al confronto e alla composizione tra le diverse opzioni culturali ed etiche che in Parlamento si esprimono, rappresentando le diverse opinioni presenti nel Paese. Sul piano pratico, senza la forzatura della fiducia, la legge delle unioni civili si sarebbe certamente impaludata nel pantano delle mediazioni a sfinimento, per poi svanire nel nulla. Nel caso di specie, dunque, l’azione del Governo sarà stata certo poco canonica, ma senza di essa migliaia di persone non avrebbero avuti riconosciuti quei diritti che ora fanno pienamente parte dei nostri codici. Parigi valeva la messa.

Naturalmente, nei mille giorni di Renzi non sono mancate le ombre. Il Jobs Act era necessario e, per quanto ancora insufficienti, sta producendo effetti positivi non trascurabili, che misureremo con maggior ponderazione nel periodo medio. Non tutte le sue parti sono state governate al meglio (si pensi ai vouchers) o attuate con la necessaria tempestività ed efficacia (si pensi ai meccanismi che devono accompagnare la formazione e l’inserimento nel mercato del lavoro, soprattutto dei più giovani. E neppure si può tacere il paradosso per il quale il più grosso investimento fatto negli ultimi decenni sulla scuola, e la più grande stabilizzazione di massa di personale precario mai realizzata dallo Stato, si sono trasformati in uno dei boomerang letali per il consenso al Governo.

La sconfitta al referendum ha aperto nel PD, e nelle stesse valutazioni seccamente autocritiche del segretario, la stagione di una nuova riflessione sui “mondi di riferimento perduti”, sui settori sociali che nel gorgo delle ingiustizie sociali, nell’abbandono delle periferie, nella solitudine della povertà e della perdita di identità non vedono più, se mai l’hanno visto, nel PD un riferimento, e cercano risposte nella demagogia dei populismi o nel rancore delle proposte xenofobe o ancora nel silenzio dell’astensione. Fa bene, Renzi, ad aprire questa ricerca e ad assumersene la responsabilità diretta, pur dovendo rispondere solo al capitolo conclusivo di una dinamica cominciata ben prima.

Ma sarà bene, nel farlo, che egli non perda di vista e rilanci quanto di buono ha fatto nella sua permanenza a Palazzo Chigi, varando, almeno nel pallido e un po’ oscurantista teatro italiano, un riformismo di conio nuovo, sul terreno di quei diritti di cittadinanza per i quali siamo ancora all’inizio del cammino, ma che almeno non ci vedono più fermi al palo.

(*) Senatore PD della provincia di Alessandria

2 pensieri su “Renzi: il riformismo della cittadinanza

  1. Apprezzo la pacata e intelligente analisi del senatore Borioli; allo stesso tempo osservo che, secondo me, sarebbe indispensabile istruire il congresso del PD il più presto possibile anche per valorizzare quanto di buono e’ stato intrapreso …e soprattutto tenendo conto che con idee del tipo capilista- bloccati e abnormi premi di maggioranza non si va da nessuna parte, ma si dà solo l’impressione di voler “comandare”, mentre in democrazia non “comanda” nessuno, ma ciascuno svolge un ruolo o una funzione secondo regole condivise e partecipate. Un caro saluto. Roberto Cresta

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