Renzi autobiografia del centrosinistra

Il punto  Daniele Borioli (*)

renUserò in questo ragionamento una drastica schematizzazione, con tutti i rischi di sommarietà e inesattezze che ciò comporta, quando si tratta di affrontare temi complessi, convulsi e soggetti al rapido mutare delle contingenze, come sono quelli in cui si intrecciano le vicende del Governo, del Parlamento in carica, del Partito di maggioranza.

Tralascio per il momento (ma ci torno) le considerazioni relative al modo in cui Renzi interpreta la sua leadership. Non perché la questione non sia rilevante. Lo è. Ma perché voglio partire dal merito delle riforme in corso e dal dibattito (meglio sarebbe dire dalle contrapposizioni) che esse scatenano all’interno del PD.

Nella grandissima sua parte, la riforma costituzionale cui il Parlamento sta lavorando, nei capitoli riguardanti il superamento del cosiddetto “bicameralismo paritario” (o “perfetto”) è del tutto simile a quella preconizzata, ormai molti anni fa, dal programma fondamentale dell’Ulivo. Basta vedere le tesi programmatiche del tempo (si trovano su internet) per prenderne atto.

Per la precisione, esse delineano una Camera delle Regioni, i cui componenti sono Consiglieri regionali che mantengono la propria funzione anche durante l’esercizio del loro mandato alla seconda assemblea parlamentare. In quel testo, due delle questioni su cui i critici interni al Partito Democratico mettono, oggi, particolarmente l’accento non sono neppure citate.

Non la “diminutio”  classsificatoria, sulla quale anche il pur misurato Bersani (che in quella stagione ebbe ruoli non secondari) si è esercitato, liquidando il futuro Senato delle Regioni come un assembramento di nominati. Ho provato a trovare qualche traccia di larvata critica coeva al modello allora ideato dal Professore, da parte di qualcuno degli “ulivisti” nativi che vedesse allora il rischio che Pierluigi vede oggi. Non l’ho trovata, ma prego chi la trovasse di darmene notizia e riferimenti.

E neppure sul secondo degli argomenti “forti”. La presunta riduzione del Senato a un consesso dopolavoristico, cui i Consiglieri regionali e i Sindaci dedicherebbero i ritagli di tempo. Anche su questo punto ho provato alacremente a ricercare critiche e dissensi, nel nome della democrazia e del decoro delle istituzioni, databili alla fase eroica e fondativa dell’Ulivo, o alla seconda stagione “Unionista”. Niente.

Il che mi autorizza ad aprire un bivio dialettico: o una proposta cambia di senso e valore a seconda di chi la formula. E quindi il problema di chi dissente non sta nel merito ma sta nella faccia e nel “metodo” del proponente. O i fatti della storia e della cronaca hanno indotto coloro che, al tempo, apparivano allineati su una proposta di riforma del tutto simile a quella di oggi, a cambiare opinione e posizione. Cosa del tutto legittima, ma insufficiente a evocare lo spettro dell’autoritarismo.

Più complesso è il tema che riguarda, anche di riflesso al punto appena trattato, la riforma della parte che riguarda la ridefinizione delle competenze delle Regioni, nel loro rapporto con lo Stato. La famosa riforma del titolo V. Su questo terreno le critiche sono molto meno accanite, anche perché questo rilevantissimo ambito è quello su cui più si misurano le contraddizioni e le altalenanti progettualità, nonché i fallimenti della nostra storia recente. E di chi in essa (nel suo piccolo anche il sottoscritto) ha avuto qualche responsabilità.

Il centrosinistra è cresciuto, nella prima stagione dell’Ulivo, successiva a Tangentopoli e introduttiva alla mai nata seconda Repubblica, nel mito del regionalismo e dell’autonomismo interpretato da quel gruppo di leggi, rubricate sotto la definizione di “federalismo a Costituzione invariata, che hanno preso il nome dall’allora Ministro Franco Bassanini.

Un processo immane e, talvolta, confuso, che ha rivoluzionato molti aspetti della pubblica amministrazione, sul versante politico e organizzativo, modificando rapporti di potere tra lo Stato e i livelli locali e gli ambiti di esercizio delle competenze di governo, programmazione, amministrazione e gestione. Culminato nel 2001 con la riforma della Costituzione, approvata a stretta maggioranza sul finire della Legislatura.

Su impulso di quello stesso gruppo dirigente, che oggi evoca l’antidemocraticità di un processo che, almeno sino alla rottura del “Patto del Nazareno”, aveva coinvolto almeno una parte delle minoranza nel processo riformatore. Come dire che nella misura del tasso di democraticità di un percorso di riforma costituzionale è più rilevante l’ascolto delle minoranze interne a un partito, che non la ricerca di una sintesi con le altre forze politiche.

Vero è che quella riforma è stata più volte oggetto di successive autocritiche. Ma questo non basta a togliere di mezzo le approssimazioni di un esito riformatore (certo non imputabile all’attuale gruppo dirigente democratico), che al di là degli aspetti “viziati” del suo procedimento formativo, ha concorso a gettare nel disordine l’architettura istituzionale dello Stato, a far crescere inefficienze e sprechi. Fallendo nel contempo gli obiettivi di una vera “rinascita federalista” della Repubblica e di un’efficace applicazione del principio di sussidiarietà.

Senza misconoscere le buone cose fatte dal “centrosinistra di prima”, così come le cose criticabili fatte dal PD di oggi, mi appare perciò evidente come la riforma costituzionale si attesti nel duplice solco di un lavoro necessario: realizzare il progetto dell’Ulivo, rimasto per varie ragioni sulla carta; correggere gli errori di un ventennio, attribuibili in parte preponderante al centrodestra, ma certo non nella nostra totale “innocenza”.

Su questi binari, critiche e miglioramenti sono accette e possibili. Viceversa, la discussione nel PD ha assunto in questi mesi troppo spesso toni esasperati, molto fuori misura a mio parere rispetto alla portata dei temi in discussione e molto più orientati alla regolazione dei rapporti di forza interni, che non all’interesse del Paese. Che non ci risulta granché appassionato alla tenzone.

Considerazioni, diverse per materia, ma in qualche modo simili per impianto, valgono a proposito della riforma elettorale. Solo un cieco che pensa gli altri ciechi e sordi può, seriamente, negare che, nel corso degli anni che abbiamo alle spalle, il porcellum abbia goduto di una sostanziale “non belligeranza” da parte di quasi tutte le forze sedute in Parlamento.

Giusto ricordare che la sciagurata legge è frutto parlamentare del centrodestra (centravanti Calderoli), cui si oppose senza i necessari numeri il centrosinistra. Ma se si misura il fiume di parole che oggi anche parte del PD dedica a denunciare lo “stupro di democrazia” potenzialmente contenuto nell’Italicum 2.0, con il silenzio o i balbettii che hanno accompagnato dalle nostre parti gli anni di vigenza della norma “suinoide”, appare in tutta evidenza lo scarto.

Sino all’ultima stagione, precedente le elezioni del 2013, quando la sussistenza del porcellum fu tollerata, anche perché il canto delle sirene demoscopiche pareva assegnarci un possibile trionfo in entrambe le Camere, in forza dello spropositato premio di maggioranza assegnato al vincitore.

Nel merito, l’attuale riforma presenta certo indubbi limiti. Ma non c’è dubbio che il testo approvato al Senato ha modificato radicalmente l’impostazione con cui l’Italicum è uscito dalla Camera, approvato là, nonostante le molte gravi lacune, anche da chi oggi preannuncia battaglia. Modificato in meglio, recependo proprio i punti sostanziali su cui si addensavano le critiche della sinistra PD.

Critiche che ricordo bene, avendo a lungo frequentato quel milieu politico. Si diceva inaccettabile l’alto sbarramento (all’8%) per accedere alla rappresentanza parlamentare: si è passati al 3%. Si stigmatizzava lo sbarramento differenziato a seconda dell’appartenenza o meno a una coalizione: questione superata. Si denunciava l’eccessivamente basso quorum per accedere al premio di maggioranza: innalzato dal 37% al 40%. Si riteneva non sufficientemente disposta la parità di genere: le modifiche introdotte al Senato impongono a ogni partito di candidare non più del 40% dello stesso genere nella posizione di capolista. Si evidenziava il vulnus legato alle liste bloccate: si è mantenuto il blocco solo per i capilista, liberando per gli altri candidati il meccanismo delle preferenze.

In questo ultimo punto si insediano oggi le critiche maggiori. Si è tornato a parlare, impropriamente, di “nominati”. Dimenticando l’incostituzionalità intrinseca di questo giudizio. Contraddetto dalla stessa sentenza della Corte, che nel giudicare l’incostituzionalità del porcellum, ha molto insistito soprattutto sulla questione dell’eccessiva premialità assegnata al partito uscito vincente dalle elezioni, sganciata da ogni raccordo all’entità del consenso conseguito. Mettendo in secondo piano, pur citandola, la questione delle preferenze. E dopo poco ribadendo, a fronte di coloro che invocavano lo scioglimento delle Camere dei “nominati”, la piena legittimità delle Assemblee insediate a legiferare, anche sulle materie di rango costituzionale.

Ed è ben curioso questo scivolamento verso il lessico più propriamente “grillino”, sul tema delle preferenze, da parte di quelle componenti PD che, per storia e percorso politico, provengono da una cultura che ha lungamente diffidato dello strumento “preferenza”, quale fattore di potenziale inquinamento del voto.

Personalmente non ho mai avuto, e non ho, questa remora. Ritengo la preferenza una ragionevole strada per restituire maggiore sovranità agli elettori. E avrei preferito anch’io un sistema che, pur articolato in collegi, lasciasse la selezione degli eletti integralmente all’espressione preferenziale cittadini. Abbiamo ceduto a un compromesso con Berlusconi? Sì, abbiamo dato a un principio: laddove è possibile, riforme come quella della legge elettorale si fanno insieme alle minoranze. Almeno a quelle che sono disponibili trovare, per l’appunto, un compromesso ragionevole.

Questo è quanto è successo. Si poteva preferire un altro esito. Ma, francamente, qualificare la legge in approvazione come un “attacco alla democrazia”, proprio da parte di chi ha fatto, per lungo tempo, del contrasto alle preferenze una battaglia politica e culturale, appare smisuratamente fuori misura.

Procedendo per schemi, dedico qualche considerazione finale al “metodo Renzi”. Vengo dall’archeologia della politica, da un’altra cultura, da un’altra stagione. E, quindi, non posso non sentirmi talvolta frastornato, contrariato, perplesso dal modo con il quale il premier  affronta il dibattito interno il dibattito nel Paese. Ma è sufficiente, questo, a legittimare il contrasto radicale che una parte del partito di maggioranza sta svolgendo, atteggiandosi nel dibattito, sempre, e nella prassi parlamentare, solo in alcune occasioni ma sempre più spesso, come una forza di opposizione?

Anche qui, lo scarto di coerenza tra gli atteggiamenti tenuti verso il Governo Letta, connotato dalla presenza di Berlusconi in maggioranza, ma guidato da un leader “ amico, che fu vice di Bersani, rispetto a quello tenuto verso il Governo Renzi, che procede per alcuni aspetti in assoluta continuità con il Governo Letta, solo più in fretta, e sta facendo cose che Letta aveva annunciato, si spiega solo con una parola scomoda ma incombente: “antirenzismo.

Ci sono cartine al “tornasole” piuttosto lampanti in tale senso. Una fra tutte, la riforma costituzionale, che nella fase Letta fu attaccata da sinistra e da molti intellettuali democratici per la modifica all’articolo 138. Ma fu difesa allora dal PD, tutto. Compresi coloro che oggi parlano di attacco alla democrazia. Un’altra: l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Che ha attaccato alla radice uno dei cardini del funzionamento del sistema politico e democratico. Ma che è stata portata a compimento dal Governo Letta, con il sostegno di tutto il PD, secondo la stessa logica di condiscendenza alla “pancia” dell’opinione pubblica che si rimprovera a Renzi.

Il quale è certo un leader  forte, talvolta “urticante”. E certo non infallibile. Ma che, per diversi aspetti, e voglio chiudere con una provocazione, è in gran parte anche incarnazione dell’”autobiografia” del centrosinistra formatosi nel dopo-tangentopoli.

Un centrosinistra che ha fatto, a partire dall’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia, fino all’elezione diretta dei Presidenti di Regione, dell’esaltazione del rapporto diretto tra corpo elettorale e cariche monocratiche il perno costitutivo della “seconda Repubblica”. Che ha portato, in fondo, la stessa logica dentro il decennio del “mattarellum”, che con i collegi uninominali accentuava a suo modo la personalizzazione della funzione di rappresentanza politica.

Un centrosinistra che, con la costituzione del PD e la definizione delle sue regole: primarie, coincidenza statutaria tra la figura del Segretario, eletto direttamente dal “popolo degli elettori”, e candidato alla premiership, ha ulteriormente radicalizzato un’impostazione che, con Renzi, trova la sua compiuta applicazione. Ma che aveva già conosciuto con Veltroni i suoi primi spunti. Bersani, in questa breve storia, ha cercato di innescare una qualche controtendenza, condivisibile dal mio punto di vista.

Ma ha perso la sua battaglia. Ben prima delle elezioni del 2013: nel corso della sua gestione del Partito, durante la quale non è riuscito a introdurre quelle modifiche che, forse, ne avrebbero almeno parzialmente corretto la natura. Il parziale insuccesso delle elezioni del 2013, sono state il riscontro della distanza tra il modello di partito che egli avrebbe voluto ridisegnare, senza peraltro riuscirci, e un’attitudine ormai radicata e consolidata nella percezione e nei sentimenti dei cittadini. Attitudine che, noi per primi (anziani del centrosinistra), abbiamo alimentato nell’ultima parte della nostra vicenda.

D’altro canto, se si guarda il campo dei dissidenti interni al PD, non si può non vedere come, alla fine, la logica della contrapposizione e della concorrenza tra leadership individuali regna sovrana. E produce selezione impietosa. Il recente incontro di sabato 21, all’Acquario di Roma, ne è palese dimostrazione. Il pur generoso sforzo di generare una “guida diffusa” produce solo cacofonia. Speranza, D’Attorre, Fassina, Cuperlo, ecc. dicono ciascuno una cosa diversa, non riducibile a un progetto politico ma al massimo definibile nel minimo comune denominatore dell’antirenzismo. E alla fine, ciò che emerge e diventa spunto di discussione pubblica rilevante, sono gli interventi di Bersani e D’Alema.

Leoni gloriosi, che si sono combattuti e alleati, ricombattuti e rialleati nel corso della contorta vicenda delle famiglie politiche dalle quali in molti proveniamo. Leaders veri di una stagione passata e importante. Leaders senza eredi. E nel modello di sistema politico che abbiamo insieme costruito, difficile se non impossibile è costruire un progetto politico senza un leader  in grado di dargli gambe e consenso.

(*) Senatore PD della provincia di Alessandria

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