Gianni Castagnello

Non è uno degli argomenti su cui si concentra l’attenzione della gente in questo periodo. Il campo dell’attenzione mediatica è occupato dal dibattito sul green pass e l’obbligo vaccinale, dalla coda della crisi afghana con l’arretramento degli Stati Uniti e la secondarietà dell’Europa. C’è ora la preoccupazione per gli aumenti delle bollette e poi sta entrando nel vivo la campagna elettorale per il rinnovo dei sindaci nelle principali città con le manovre e le polemiche tra leader e partiti.
Così è stato esiguo lo spazio che i media hanno dedicato alla sentenza della Cassazione – sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. La questione era stata sollevata in un istituto professionale di Terni dove un docente di italiano e storia, attivista dell’Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) aveva ricevuto, nell’arco di alcuni anni, due sospensioni di trenta giorni per aver prima rimosso, poi coperto con il testo della Costituzione il crocifisso all’inizio delle sue lezioni, a fronte di una decisione degli studenti, riuniti in assemblea di classe di tenere esposto il crocifisso nell’aula.
La sentenza delle Sezioni Unite Civili, n. 24414 pubblicata il 9 settembre scorso – 65 pagine di non facile lettura per chi è “laico” rispetto alle discipline giuridiche – afferma che “In base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso” (30).
Si nega quindi l’obbligo determinato dai pubblici poteri ma, interpretando in conformità alla Costituzione l’art. 118 del regio decreto n. 965 del 1924: “La comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un ‘ragionevole accomodamento’ tra eventuali posizioni difformi” (30)
Pertanto “E’ illegittima la circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa a maggioranza in assemblea, di veder esposto il crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente.” (30)
E’ stata così rigettata la sentenza del tribunale di Terni, confermata in appello a Perugia, che aveva respinto i ricorsi del docente e decade quindi la sanzione disciplinare che gli era stata inflitta.
Tuttavia – prosegue la sentenza – la circolare del dirigente scolastico “Non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente … né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.” (30)
Se dal regio decreto del 1924 non può venire un obbligo di esposizione del crocifisso, “la strada da percorrere” per decidere se esporlo o meno, dovrebbe essere quella “dell’accomodamento ragionevole … attraverso un dialogo costruttivo in vista di un equo contemperamento delle convinzioni religiose e culturali presenti nella comunità scolastica, dove la plurale e paritaria coesistenza di laici e credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni, è un valore inderogabile.” (19)
In questa luce, la circolare emanata dal dirigente scolastico non sarebbe conforme “al modello e al metodo di una comunità dialogante” (22) perché avrebbe tenuto conto della richiesta degli studenti di esporre il crocifisso ma non del punto di vista del docente che ne chiedeva la rimozione.
Peraltro: “Non vi sono, ragionevolmente, elementi per sostenere che l’esercizio della libertà e autonomia didattica del singolo docente siano pregiudicati o impediti dal simbolo” (28.1) e la sentenza osserva acutamente che: “Lo spirito di tolleranza e il rispetto della coscienza morale degli alunni, cui il docente è tenuto a conformare il suo comportamento, valgono proprio a fronte di opinioni o convinzioni da lui non condivise.” (28.3)
La Cassazione indica un obiettivo: quello di raggiungere una soluzione rispettosa delle differenze e delle istanze legittime di tutti, e un metodo per affrontare il dissenso: quello della “mitezza” e del “dialogo”.
L’equilibrio della sentenza ha consentito al segretario generale della CEI, mons. Stefano Russo di sottolineare, in armonia con l’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana del 1984, che: “La decisione della Suprema Corte applica pienamente il principio di libertà religiosa sancito dalla Costituzione, rigettando una visione laicista della società che vuole sterilizzare lo spazio pubblico da ogni riferimento religioso” e di concludere: “E’ innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo … Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità.”
Sul versante laicista, anche l’Uaar trova materia di “viva soddisfazione” perché: “E’ stata finalmente sancita nero su bianco la non compatibilità del crocifisso con lo Stato laico.”, ma la dichiarazione appare francamente semplificatrice rispetto alle sottili e articolate analisi della Suprema Corte.
La messa in discussione del crocifisso da parte dell’insegnante di Terni ha segnato una ulteriore tappa – non definitiva – di una vicenda che ha ormai una sua profondità storica, dai regi decreti del 1924 e del 1928, che non sono mai stati abrogati, ai pareri del Consiglio di Stato del 1988 e del 2006 dove si dice che il crocifisso rappresenta un simbolo non solo del cristianesimo e della cultura italiana nella sua evoluzione storica ma anche di valori quali la libertà, l’uguaglianza, la dignità umana, la tolleranza nei quali può riconoscersi lo Stato laico.
La sentenza delle Sezioni unite, affermando che la decisione circa la presenza del crocifisso, e di altri simboli religiosi, non può essere un atto d’autorità ma deve scaturire da un confronto nella comunità educante, improntato al metodo del dialogo e del rispetto delle sensibilità di tutti, aiuta la scuola e la società italiana ad affrontare una realtà sociale e culturale nella quale in pochi decenni sono profondamente cambiati la cultura, la sensibilità, e i principi che orientano la vita delle persone. L’incontro e il confronto tra le persone sulle convinzioni più radicate e orientative della loro vita sta avvenendo in termini nuovi, magari impoveriti di riferimenti culturali, di razionalità e modelli autorevoli, ma proprio perciò bisogna porre la massima attenzione per evitare che il confronto scivoli nella babele delle lingue e nel conflitto.
E’ tramontata l’età cristiana che giustificava il consenso tacito ma largamente maggioritario sulla presenza del crocifisso – “simbolo passivo” di un’identità e di una storia – nelle scuole e negli edifici pubblici.
Dal 1995 al 2016, rilevava l’Istat, nonostante la popolarità di Papa Francesco, la quota dei giovani che che vanno a messa almeno una volta a settimana era scesa dal 26,8 al 14,6%; a cinque anni di distanza nulla fa pensare che il trend sia cambiato.
Le scuole italiano sono diventate più multietniche e multiculturali. Nell’a. s. 2018/19 su otto milioni e mezzo di studenti, circa 860.000 non avevano la cittadinanza italiana: circa il 10%, e nella scuola primaria la percentuale di studenti stranieri sale al 36,5%. Si tratta di ragazzi che provengono dal altre culture, da altre storie, spesso con risvolti drammatici, e da esperienze di difficile inserimento sociale.
Altrettanto significativa è la generale trasformazione della religiosità, caratterizzata dall’attrazione verso forme integralistiche per alcune minoranze e dalla apparente completa assenza non solo di interesse ma di sensibilità religiosa per la maggioranza.
Una indagine del sociologo Franco Garelli pubblicata nel 2020 (Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio Il Mulino, Bologna) rileva che negli ultimi 25 anni i non credenti sono cresciuti del 30% mentre le altre fedi sono passate dal 2 all’8% Il cattolicesimo appare stanco, sono diminuite la pratica religiosa e la preghiera; i riti sono ritenuti facoltativi.
Se il 69% degli intervistati ritiene che non sia anacronistico credere in Dio, fra i 18 e i 34 anni si riscontra la quota più alta, dal 35 al 40%, di coloro che si dichiarano senza Dio, senza preghiera, senza culto, senza vita spirituale.
La questione del crocifisso per molti sembrerà inattuale, alcuni penseranno che sia meglio lasciare che sia dimenticato anziché chiederne la rimozione, e che tutta la questione sia solo un esempio, tra altri, del difficile accordo tra eredità culturali e convinzioni individuali.
I cattolici fanno bene a ricordare che esso rappresenta una tradizione culturale millenaria particolarmente radicata in Italia e che è simbolo di valori che anche il mondo laico pone a fondamento della vita associata, ma devono guardarsi dall’appoggiarsi in modo rigido e pregiudiziale sul valore della tradizione e dal chiedere che l’obbligo sia stabilito d’autorità. Chiara e ben indirizzata in tal senso è la sentenza della Cassazione.
Aggiungo la frase coraggiosa e un po’ provocatoria di un sacerdote, ascoltata un po’ di anni fa: “il crocifisso nelle aule non importa, importa che sia impresso nel cuore” ed anche, per chi alla presenza del crocifisso si ribella, quello che dissi – permettete l’autocitazione – a un mio studente, brillante e sfrontato come si è a diciott’anni, che esibiva sulla maglietta un volto di Cristo e la scritta “Kill your idols” : “Non è quello il tuo idolo, non è da Lui che devi liberarti”.