Lo malo pensiero

Dario Fornaro

astDopo mezzo secolo abbondante di fedeltà alla cabina elettorale, in ogni stagione e circostanza di chiamata alle urne, un “malo pensiero” (in lessico brancaleonico) si insinua proditoriamente nei meandri cerebrali e reca seco una sfida apparentemente ineludibile: pensi di continuare a onorare l’obbligo civico, o conti di contestare, in extremis, la decadente manfrina democratica denominata elezioni?

Per buona ventura le Oche del Campidoglio del vecchio cittadino starnazzano tempestivo allarme e il pericolo di renitenza al prossimo appello, quale che sia, sembra per ora contenuto (costretto) nel girone del malpancismo personale. La inopinata comparsa, tuttavia, del virus astensionista in un individuo vaccinato a dovere, è motivo di sorpresa e riflessione.

Badando anche a quel che si dice attorno ad una diserzione ormai diffusa e consolidata, parrebbe che il tarlo della fuga dalla scheda sia  riconducibile: o a delusione-disgusto ovvero a noia-inutilità , salvo personali combinazioni delle due.  Nel primo caso muovono a delusione le malefatte e/o le scempiaggini della politica e dei suoi affezionati addetti; nel secondo prevale il senso di inutilità assoluta del proprio voto al cospetto dello strapotere, subdolo o esibito, degli  eletti  e alla calcolata distorsione dei sistemi elettorali pre-adottati.

Cautela d’obbligo: non tutti i politici sono di pasta indigesta, pregasi non generalizzare. D’accordo, più che giusto, ma l’efficacia della distinzione diventa sempre più flebile all’atto di entrare in cabina o di marinare l’appuntamento.

Come che sia – e tornando all’incaglio elettorale – per me la pozione tendenzialmente letale è la seconda, detta della noia-inutilità. Il disgusto per la malapolitica  mi accompagna  dall’età di liceo e dalla frequentazione della carta stampata. Ma allo sdegno si accompagnava la speranza individuale, e la determinazione comunitaria, di poter contenere seriamente i fenomeni degenerativi mediante il corretto esercizio degli strumenti democratici e la oculata selezione della classe politica. Il tutto, assistito dal richiamo, continuo e severo, al “bene comune”, nobile obiettivo dileguatosi poi, mano a mano, nell’agone politico e culturale e spesso sostituito dall’efficientismo operativo. Non è peraltro da escludere che, più terra-terra, abbia funzionato solo e inavvertitamente il “farci il callo”,col passar del tempo e il ripetersi, ad abundantiam, degli sgarri.

Ciò a cui, per contro, né mi sono rassegnato, né conto di abituarmici, è la questione dello scettro che mi viene consegnato, con grande degnazione, il giorno delle elezioni (ah il simbolo del potere popolare!) e mi viene puntualmente ritirato il giorno appresso, quello dei risultati. In cambio mi viene rilasciato un avviso chiaro e stringente: fino alla prossima volta che ti recherai ai seggi, sarai tenuto a non disturbare il manovratore designato dalle urne, dunque anche da te. Naturalmente nessuno ti tapperà la bocca e, fuori dai circuiti rappresentativi e decisionali, sarai libero di abbaiare alla luna come e quanto ti piacerà. Il sistema – sia lode al maggioritario spinto – non contempla interferenze perditempo né dibbattiti estenuanti.

Bene, perplesso ma ho capito. Salvo che può capitare di sentirsi crescere dentro una conclusione imprevista: tenetevi pure, anche per quel giorno, il fatidico scettro di cartone dorato, non è carnevale.

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